L’11 dicembre 2025 il Portogallo si è fermato, o almeno così è parso a chiunque abbia tentato di prendere un treno o di attraversare le vie principali di Lisbona. Oltre tre milioni di persone non si sono presentate al posto di lavoro e migliaia di manifestanti hanno assediato simbolicamente il Parlamento. Ieri è andata in scena quella che, numeri alla mano, è stata una protesta di portata insolita. Capace di paralizzare i trasporti e riportare in piazza un malcontento che covava sotto la cenere. Eppure, osservando la reazione dell’Esecutivo, si ha l’impressione di aver assistito a due film completamente diversi proiettati sullo stesso schermo. Titolo in cartellone: Sciopero Generale in Portogallo: l’Impero dei numeri contrapposti. Da una parte la piazza e i sindacati, dall’altra un governo che nutre ancora (forti) dubbi sul fatto che i portoghesi siano davvero contrari alla riforma sul lavoro.
La guerra dei numeri dello sciopero Generale in Portogallo e la strategia della normalizzazione
La domanda, retorica ma non troppo, l’ha lanciata il ministro della Presidenza António Leitão Amaro, assurto a principale portavoce della strategia governativa: «Pensate alla vostra vita, chiedete ai vostri amici e familiari: la maggioranza ha scioperato o ha voluto lavorare?». Una posizione ribadita più volte nel corso della giornata, con una precisione quasi chirurgica nel voler ridimensionare l’accaduto. Per l’Esecutivo, quelli che hanno incrociato le braccia durante lo sciopero generale rappresentano una «minoranza» di scontenti, una cifra che secondo le stime ufficiali non supererebbe il 7% della popolazione occupata in Portogallo. Anche il Primo Ministro Luís Montenegro, sollecitato a caldo, ha tagliato corto con un laconico: «Il Paese sta lavorando». Una narrazione che ha scatenato l’ironia pungente dell’opposizione, con il leader parlamentare socialista Eurico Brilhante Dias che non ha esitato a paragonare Leitão Amaro al «ministro della propaganda iracheno durante la guerra del Golfo».
Al di là delle schermaglie verbali, è evidente che il governo ha scelto una linea precisa: minimizzare l’impatto visivo e sociale dello sciopero per non mostrare debolezza al tavolo delle trattative. Non è un caso che il ministro del Lavoro, Rosário Palma Ramalho, figura considerata uno degli ostacoli principali nel dialogo con le parti sociali, sia rimasta strategicamente in secondo piano. Lasciando la scena alla comunicazione politica pura.
Il dialogo sociale in stallo con l’UGT

Se la piazza ha urlato il suo dissenso, nelle stanze dei bottoni il silenzio è assordante. Senza una data fissata per riaprire il dossier con la Unione Generale dei Lavoratori (UGT), il governo ha preferito attendere, quasi a voler misurare la febbre del Paese prima di decidere la terapia. Sono passati dodici anni dall’ultima volta che le due grandi confederazioni sindacali si sono unite contro le modifiche al codice del lavoro,. Un precedente che avrebbe consigliato prudenza. Eppure, la prossima riunione plenaria del dialogo sociale è calendarizzata solo per il 14 gennaio. Quasi a ridosso delle elezioni presidenziali. Una tempistica che la dice lunga sulle intenzioni di non accelerare.
Mário Mourão, segretario generale della UGT, non ha nascosto la sua confusione. Se l’incontro di fine novembre con Montenegro a São Bento aveva lasciato sperare in un percorso «senza linee rosse», le dichiarazioni successive e l’atteggiamento dell’Esecutivo hanno raffreddato gli entusiasmi. Il dubbio, legittimo, che serpeggia tra i sindacati è se ci sia una reale volontà di accordo o se, al contrario, la strategia sia quella di provocare la rottura. Come la ministra Ramalho, irremovibile sui «punti cardine» della proposta governativa. Pur dichiarandosi aperta al dialogo. Parole che però suonano come una beffa per chi sperava in una vera concertazione.
Gli equilibri politici e l’incognita parlamentare
Ma dopo mesi di schermaglie, cosa succederà ora? Il governo del Portogallo sembra convinto che la UGT abbia ormai giocato la sua carta più forte, quella dello sciopero generale, e che l’adesione (dal POV della sua lettura al ribasso) non sia sufficiente a far deragliare i piani di riforma. Montenegro, parlando quasi da osservatore esterno, ha voluto sottolineare come il Portogallo sia «al vertice dell’Europa e del mondo» per stabilità. Proprio a cercare quel riconoscimento internazionale che spesso serve a legittimare scelte impopolari in patria. «Il governo governa», ha scandito il premier, rivendicando il diritto di attuare il proprio programma.

Dietro questa sicurezza ostentata si nasconde un calcolo politico preciso. Ovvero, a questo punto si sa che la discussione slitterà inevitabilmente alla fine del primo trimestre del prossimo anno, ma l’Esecutivo che pare non temere l’aula parlamentare. Se l’accordo con la UGT dovesse saltare, ecco che il Partito Socialista (PS) si troverebbe nell’imbarazzante posizione di dover scegliere se appoggiare una riforma che ha già respinto o lasciare campo libero alla destra. Già perché Montenegro ha già pronto il piano B: i voti di Chega. Il partito di André Ventura si è già mostrato disponibile ad approvare la legge. Unico patto, ottenere lo stralcio di alcune norme specifiche: come il limite alla licenza di maternità o la fine dei permessi per lutto.
Tra realismo e prospettive future
Sullo sfondo restano i temi reali che impattano sulla vita quotidiana dei lavoratori: l’outsourcing, la gestione individuale delle banche ore, i licenziamenti illegittimi e l’abuso dei contratti a tempo determinato. Temi che rischiano di finire stritolati in un ingranaggio politico dove la tattica prevale sulla sostanza. La frase di Montenegro durante una visita a Porto la dice lunga: “I diritti di alcuni non possono ostacolare e impedire i diritti di altri”.
Serve realismo per leggere questa fase. Il governo scommette sul fatto che, passata la sfuriata della piazza, i “muli” (quelli che secondo Leitão Amaro hanno lavorato) accetteranno passivamente le riforme. Ma in un contesto sociale sempre più fragile. Ignorare la voce di chi scende in piazza, bollandola come minoranza inespressiva, è un azzardo che potrebbe costare caro nel lungo periodo. Perché se è vero che i numeri vanno letti come una lastra rx, è altrettanto vero che il disagio sociale non si cancella con una battutina in conferenza stampa.
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