Se fino a poco tempo fa Lisbona era celebrata nelle cancellerie europee come l’ultimo baluardo di un’integrazione virtuosa, il 2023 ha tracciato un netto spartiacque. L’aria è cambiata e non si tratta di una semplice percezione epidermica, bensì di una metamorfosi strutturale certificata dai dati: il Paese sta virando da un modello inclusivo a uno decisamente più rigido. Basta prestare orecchio agli umori della strada per cogliere come in Portogallo il sentimento negativo verso l’immigrazione stia montando, alimentato da una frustrazione diffusa che ha trasformato quella che era una risorsa in una crisi da arginare. È il passaggio da una politica di porte aperte a una di porte socchiuse. Se non addirittura sbarrate. Complice la normalizzazione di retoriche estremiste che hanno portato al centro del dibattito ciò che un tempo ne occupava solo i margini.

Il simbolo di questa inversione di rotta è stata senza dubbio la revoca, avvenuta nel 2024, della manifestazione di interesse, lo strumento giuridico che permetteva a chi era già impiegato nel Paese di regolarizzare la propria posizione. Una mossa che, giustificata dalla necessità di frenare un presunto effetto chiamata, ha di fatto gettato nel limbo migliaia di persone, rendendo il percorso verso la legalità una corsa a ostacoli quasi insormontabile. Non è un caso che molti immigrati descrivano questa decisione come un tradimento di quella promessa di stabilità che il Portogallo sembrava offrire. Di base così come scritta la legge ha trasformando l’opportunità di fare integrazione in una fonte di incertezza e precarietà.
Barriere invisibili: quando la burocrazia diventa un muro
Il vero volto del Portogallo e del suo sentimento negativo verso l’immigrazione non si manifesta necessariamente con muri al confine. Spesso lo sono di più le barriere amministrative che risultano altrettanto invalicabili. Ne è un esempio la transizione dal vecchio SEF alla nuova agenzia AIMA. Sulla carta avrebbe dovuto separare le funzioni di polizia da quelle amministrative, per l’immigrazione. Nella pratica si è tradotta in un collasso gestionale. Le testimonianze raccolte dagli studi sul campo dipingono un quadro desolante fatto di inefficienze sistemiche. Tutti noi sappiamo che ottenere un appuntamento è diventata un’impresa titanica. Nel caso di immigrati extra UE spesso la percezione è che l’unica via, errata, è quella di rivolgersi ad intermediari a pagamento.
Questa frontiera burocratica agisce come un filtro silenzioso ma brutale. L’impossibilità di accedere ai servizi essenziali, unita alla cronica mancanza di risposte da parte delle istituzioni, alimenta un senso di abbandono e frustrazione. Gli immigrati si sono oramai convinti di non essere più di fronte a meri ritardi amministrativi. Piuttosto ad un sistema strutturale che rende la vita perennemente precaria, posizionandoli in una zona grigia dove i diritti sono teorici e i doveri stringenti. È un sistema malato perché, cinicamente, serve solamente a mantenere una forza lavoro minacciabile e a basso costo. Ovvero un qualcosa di necessario ma non desiderato.

La retorica tossica degli immigrati buoni e cattivi
In questo scenario di crescente difficoltà, si è fatta strada una narrazione insidiosa che divide il mondo in due categorie: gli immigrati buoni e quelli cattivi. È un meccanismo psicologico e sociale perverso, che viene interiorizzato persino dalle stesse comunità straniere nel tentativo di distanziarsi dallo stigma negativo. Il buon immigrato è colui che lavora, paga le tasse, è invisibile e silenzioso. Il cattivo è invece associato al disordine, alla criminalità o al sovraccarico dei servizi pubblici. Questa dicotomia non fa che rafforzare le gerarchie razziali e sociali, creando fratture non solo tra portoghesi e stranieri, ma all’interno delle stesse comunità migranti.
Lo studio delle dinamiche sociali a Porto, ad esempio, rivela come l’idea di un Paese saturo sia ormai penetrata nel senso comune. Per sentirsi accettati in un contesto sempre più ostile, si finisce per adottare la retorica dell’esclusione verso l’altro. Si crea così una distinzione tra chi merita di stare e chi no. Basata spesso solamente su pregiudizi legati alla provenienza geografica o al colore della pelle.
Un parallelo inquietante con l’Italia e il futuro dell’integrazione
Guardando a ciò che accade in Portogallo con il sentimento negativo verso l’immigrazione, è impossibile non notare le similitudini con la situazione italiana. Entrambi i Paesi del Sud Europa condividono un approccio all’immigrazione che oscilla storicamente tra apertura e controllo, spesso tollerando l’irregolarità al solo uso e consumo del mercato del lavoro. Ma se l’Italia convive da anni con una retorica emergenziale, per il Portogallo questa è una deriva relativamente recente e per questo forse più traumatica. Il malessere che si respira a Lisbona o a Porto ricorda da vicino le tensioni delle periferie italiane: la percezione di un welfare sotto pressione, la difficoltà di accesso alla casa e la sensazione che la politica non abbia il controllo dei flussi.
La normalizzazione delle posizioni estremiste in Portogallo ci dice che nessun Paese è immune al fascino delle soluzioni semplicistiche di fronte a fenomeni complessi. Le barriere burocratiche erette per complicare la vita agli immigrati non fermano gli arrivi, la globalizzazione e le crisi internazionali sono forze che non si arrestano per decreto, ma ottengono il risultato di creare una classe di persone senza diritti, più ricattabili e meno integrate. Se l’obiettivo era la sicurezza, il risultato rischia di essere l’esatto opposto: una società più frammentata, più diseguale e, in ultima analisi, più fragile per tutti. Serve realismo per ammettere che l’era dell’idillio lusitano è tramontata e che la sfida, ora, è evitare che il Portogallo da porto sicuro si trasformi definitivamente in un porto delle nebbie.
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